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Le regole dello scrittore

Scriveva di getto, in balia di un’urgenza che bruciava tutto quello che le stava intorno. Non rispondeva al telefono per giorni, scacciava di malo modo i suoi gatti, che le ronzavano intorno reclamando cibo. Me ne occupavo io, quando tornavo da scuola.

Sapevo che in quei momenti era altrove, era impossibile comunicare con lei.

Usciva stremata dalla sua stanza, dopo giorni, settimane talvolta. Attendeva la risposta della casa editrice senza parlare e senza mangiare. Si concedeva solo lunghe passeggiate sul lungomare, mentre io ero in casa a studiare.

“Hanno chiamato?” erano le sole parole che pronunciava rientrando in casa, mentre appendeva distratta il cappotto color senape sulle grucce a fianco alla porta d’ingresso.

Apriva il frigo, sbirciava dentro senza convinzione, e finiva puntualmente per mettere l’acqua nel bollitore e preparare un te’.

“Ne vuoi?”

Non mi lasciava rispondere, riempiva due tazze, che avevano già un cucchiaio di miele sul fondo. Agguantava Smilla, che le si accoccolava volentieri in braccio, e passava così gran parte del tardo pomeriggio, una mano affondata nella folta pelliccia, l’altra a sorreggere a mezz’aria la tazza, lo sguardo perso nel vuoto, assorta in chissà quali riflessioni.

Ad ogni esito positivo seguivano giorni di piccole baldorie casalinghe. Guardare film in pigiama fino a tarda notte; un giro di shopping dove mi comperava quello che volevo; pizza e birra sul divano.

E in quelle occasioni lasciava bere un po’ birra anche a me.

E poi ricominciava il lavoro, fino al capitolo seguente.

Scriveva in apnea, a gambe incrociate, adagiata sul letto, come una ninfea sulla superfice immobile di un lago.

La luce bianca dello schermo a disegnarle il profilo, gli occhi spalancati.

A guardarla, si temeva di vederla svenire prima o poi, e invece ecco, buttava fuori il fiato tutto insieme.

Si svuotava, letteralmente, perché questo era scrivere, per lei: creare uno spazio, nuovo e con limiti e confini ben precisi, disponibile ad accogliere storie, istanti, personaggi.

Non capiva chi affermava di usare la scrittura per colmare i vuoti della propria esistenza, ammantandone i fallimenti seguendo la famosa filosofia giapponese del kintsugi, credendo di dare voce ad un’anima dolente, ricolma di cose da dire, e finire invece per rendersi ridondanti, noiosi e scontati.

“Scrittura non è, almeno non solo, urgenza dell’anima, Nina – mi spiegava. Se senti la necessità di scrivere assecondando un’onda emotiva, fallo. Ma poi cancella tutto, e riscrivi daccapo. Lavora col bisturi, su parole, frasi, costruzioni sintattiche.

La scrittura è arte, sì. Ma soprattutto artificio.

Lascia credere ai tuoi lettori che sia facile, che quello sia il tuo sentire naturale, immediato senza filtri.

Lascia che leggendo, comprendano quello che meglio si addice alle loro esistenze.

Lascia che interpretino: lo stesso scritto non ha mai lo stesso valore per due persone. Cambia a seconda del soggetto, del periodo della vita che si sta attraversando, del momento…

Lascia che si riconoscano nelle storie che racconti, che si riconoscano in te, in quella parte di te che tu metti nei tuoi scritti.

Ricorda Nina: le parole hanno un peso specifico; quello che si scrive viene prima pensato, meditato, digerito, metabolizzato. Le parole pesano: pensale sempre, e non dirle prima di averle messe per iscritto, o svaniranno nell’aria, perse per sempre.”

Mi raccontava di quando, da bambina, si arrotolava certe parole nuove sotto la lingua, ripetendole fino quasi a perderne il significato. Ma solo così, sapeva farle sue: vuote di senso, diventavano all’improvviso sua proprietà esclusiva.

Poteva così dividerle in sillabe, giocare con sinonimi e contrari, costruire, frasi, persino intere storie, partendo da una sola, singola parola.

“Ma ricorda: le parole non appartengono a nessuno, così come le storie. Meno che mai a chi scrive. Possono forse diventare patrimonio di chi legge, ma solo se è capace di andare oltre la superficie: leggere non è interpretare, né sbirciare nelle vite degli altri dalla serratura, con l’illusione di carpire informazioni reali di un qualche vissuto che non potrà mai appartenerti sul serio.

Il rischio è quello di vivere un’esistenza posticcia, riflesso di altre esistenze e non essere mai in grado di cogliere l’essenza di questo gioco.

Il dono di chi sa scrivere, la magia di chi racconta storie, è proprio vivere sospesi tra il reale e l’interpretazione, lasciare a chi legge le infinite possibilità di una storia da costruire, di mondi da immaginare; c’è chi sa farlo, e chi scimmiotta qualche modello scomodo, con enfasi da competizione, ottenendo solo di coprirsi di ridicolo.”

Così mi ammoniva, quando le raccontavo le mie ambizioni di scrittrice ragazzina.

“La scrittura è gioco, equilibrio sottile e perenne Nina, – mi diceva – ci vuole un attimo per cadere nel vuoto, e subito dopo nel ridicolo.  Solo l’allenamento a la disciplina possono evitare certi errori.

Nulla, come la scrittura svela la verità. Ci lascia nudi, di fronte ai nostri lettori, e alle nostre debolezze, senza alcuna pietà.”

Non erano ancora i tempi dei social, no. Si affacciava appena l’internet a quei tempi; io riempivo ancora le mie Smemorande di citazioni e frasi celebri, foto di attori di serie B e cantanti.

Era già avanti, lei, nei pensieri e nelle azioni.

Prendeva in mano i miei diari, con autentica curiosità, ed emetteva sentenze spietate.

“E così, prendi le frasi altrui e la fai tue, Nina? E a che pro? Non credi all’originalità? Pensi di non essere capace di concepire pensieri altrettanto profondi? Di usare la parole con uguale maestria? Leggi Nina, leggi di tutto. Amplia il tuo vocabolario, fattela da sola una cultura, che quella di scuola non basta.”

E mi allungava libri di Pavese e Hemingway, di Alda Merini, Montale, Rimbaud, Aldo Nove.

“Non curiosare nelle vite degli altri Nina, non lasciarti influenzare. Il rischio di cadere nella trappola è troppo alto.

Lettura non è, se non in minima parte, voyeurismo. Si possono creare storie, sbirciando le vite degli altri; si può fare dono di un’intimità condivisa senza svenderla, ma è il gioco la chiave, solo il gioco.

Che richiede regole precise, per non commettere falli, e una buona dose di intelligenza, per definire i confini entro quali è lecito muoversi.

Ricordalo Nina, ricordalo sempre. Queste sono le regole dello scrittore.”

Era giunta a questa conclusione, forse troppo semplice, scontata, ma certamente efficace.

Definiva il proprio raggio d’azione, entro il quale non accettava interferenze e intrusioni. Era lì dentro che costruiva storie e personaggi.

Chissà cosa penserebbe dei social, oggi. Di questo mondo di prosivendole, della facilità con cui storie e legami vengono svenduti sul web, di come la percezione del virtuale abbia soppiantato il reale.

In una realtà che ha molto di artificio, ma niente di artistico.

Scriveva in apnea, a gambe incrociate, adagiata sul letto, come una ninfea sulla superfice immobile di un lago.

A guardarla, si temeva di vederla svanire prima o poi, dissolversi nei mondi sempre nuovi che sgorgavano fuori dalle sue dita, in balia della trasformazione continua, dell’equilibrio tra reale e pensato, creato ad hoc per chi è capace di leggere oltre la superficie di quel lago immobile, cogliendo il brulicare di vita sott’acqua.

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